Avevo deciso sin da subito di fare il chirurgo, perché il chirurgo vede con i propri occhi la malattia e mette le proprie mani, oltre alla propria intelligenza, al servizio del paziente; ma mi turbava l’invasività della chirurgia anche nell’affrontare problemi “minori”, mi preoccupavano il dolore del paziente e la poca voglia dei miei mentori dell’epoca, alla fine degli anni ‘80, di occuparsene.
Erano gli anni in cui arrivavano dalla Francia le prime notizie di un’equipe di chirurghi di Lione, guidata da Philippe Mouret, che era riuscita a realizzare una colecistectomia, ossia l’intervento di asportazione della colecisti, semplicemente praticando quattro piccoli fori nell’addome del paziente; questa tecnica, chiamata laparoscopia, era stata sviluppata grazie ai grandi avanzamenti tecnologici di quegli anni.
Nei nostri ospedali, per asportare la colecisti, si facevano delle incisioni di una trentina di cm, che provocavano nei pazienti un intenso dolore postoperatorio e li obbligavano nel letto per una settimana. I pazienti operati in laparoscopia, invece, tornavano a casa un paio di giorni dopo l’intervento. Che differenza straordinaria: la chirurgia poteva dunque essere “gentile”, senza dolore, rispettosa dell’integrità del corpo e dello spirito del paziente.
Dopo essermi laureato con lode, approdai a Bologna per specializzarmi in Chirurgia generale.
Entrato nella seconda scuola di specializzazione in Chirurgia generale, mi venne assegnato come tutor un uomo straordinario, un chirurgo geniale che avrebbe segnato profondamente la mia storia professionale: il professor Giovanni Ussia, uno dei pochissimi chirurghi italiani dell’epoca a padroneggiare le tecniche mininvasive laparoscopiche. Con lui iniziai il mio apprendimento delle tecniche di chirurgia addominale minimamente invasiva, tra cui la riparazione delle ernie inguinali per via laparoscopica. Questo procedimento all’inizio mi lasciava perplesso.
In effetti, l’ernioplastica inguinale “tradizionale” prevede di effettuare una incisione inguinale relativamente piccola, e consente di riparare l’ernia in anestesia locale, con una tecnica semplice e con dimissione lo stesso giorno dell’intervento. Al contrario, pur essendo l’accesso dell’ernioplastica laparoscopica molto meno invasivo (2 incisioni da 10 mm ed 1 da 5 mm), la tecnica è molto più difficile e l’anestesia è generale, per cui il paziente viene dimesso il giorno dopo l’intervento.
Quando esponevo al prof. Ussia i miei dubbi, lui rideva e diceva: “Sei giovane Salvatore, non hai ancora esperienza, ma capirai presto che meno è più”.
Meno è più: gliel’ho sentito ripetere centinaia di volte: meno è più. Naturalmente aveva ragione lui: quanto meno si aggredisce chirurgicamente il corpo del paziente, tanti più sono i vantaggi per lui: meno dolore, meno sanguinamenti, meno convalescenza, più rapida ripresa, più veloce ritorno alle proprie attività quotidiane. Potremmo dire che la chirurgia laparoscopica “regala vita” al paziente.
Nella chirurgia di parete – quindi nella chirurgia delle ernie inguinali e addominali, dei laparoceli e della diastasi dei retti – questo è ancora più vero: per esempio, il dolore inguinale cronico e le alterazioni della sensibilità cutanea sono circa la metà dopo riparazione laparoscopica dell’ernia inguinale rispetto alla riparazione aperta, e la probabilità di avere una recidiva si riduce del 30-50%.
Nella diastasi, se si confronta la REPA con l’addominoplastica, il dolore post operatorio è enormemente ridotto, le recidive dal 40% dell’addominoplastica scendono a circa il 3% della REPA, il rischio di necrosi cutanea e dell’ombelico si riduce dal 25 circa allo 0%. Meno invasività, più vantaggi per il paziente. Sempre.
Da allora, nel tempo, mi sono imposto di offrire ai miei pazienti il “plus” della minor invasività in tutti gli interventi possibili.
L’evoluzione professionale
La mia attività è di fatto nata nel 2008, con la decisione di lasciare l’Italia alla volta della Spagna. Ero già da 7 anni assunto in ospedale con contratto a tempo indeterminato, ma non tolleravo il sistema piramidale che ancora oggi affligge la sanità pubblica italiana, a causa del quale è molto difficile, per un medico e per un chirurgo soprattutto, evolversi professionalmente.
In particolar modo, fino a 4-5 anni fa la chirurgia della parete addominale è stata considerata in Italia una chirurgia “minore”, più seccante che utile: ciò nonostante essa rappresenti circa il 30% di tutta la chirurgia effettuata in un ospedale ogni anno, e nonostante alcune delle sue tecniche chirurgiche, soprattutto quelle mininvasive, siano ad elevatissima complessità.
In Spagna trovai un ambiente di lavoro completamente opposto rispetto alla realtà italiana: ampia libertà e autonomia del medico, meritocrazia, spazio molto ampio per la chirurgia mininvasiva: un terreno ideale per coltivare le mie aspirazioni e le mie ambizioni.
Tornato in Italia nel 2012, ho cercato di trasferire nella mia pratica clinica quotidiana l’esperienza accumulata in Spagna. Aprii il mio primo ambulatorio libero-professionale, che per scarsità di risorse è stato per un paio d’anni localizzato all’interno dell’ospedale.
Iniziai ad applicare le tecniche mininvasive apprese nel campo della proctologia, della chirurgia delle ernie, dei laparoceli e della chirurgia addominale.
Dal momento che la chirurgia del colon e dello stomaco era a quel tempo monopolizzata dal primario dell’epoca, decisi di investire su una nicchia ancora libera, la chirurgia di parete, appunto, e di superspecializzarmi in tecniche mininvasive.
Continuai a frequentare assiduamente l’ambiente chirurgico iberico e latinoamericano e ad imparare dai miei amici e colleghi stranieri tutto quello che potevo.
In particolare, appresi dell’”esistenza” della diastasi dei retti come entità patologica (in Italia è stata a lungo una condizione “dimenticata”, considerata solo sul versante estetico) e di una nuova tecnica per la sua riparazione, la REPA, messa a punto da Derlin Juarez Muas, giovane chirurgo argentino che conoscevo.
Cercai di capire in cosa consistesse esattamente la diastasi; e quando venni a sapere che colpisce il 33% delle donne dopo il parto, una platea enorme di pazienti che ogni anno venivano “squartate” dai chirurghi plastici con l’addominoplastica, con risultati funzionali davvero poveri, capii che quello era lo spazio che potevo e dovevo occupare.
Andai allora da Derlin e mi feci insegnare passo passo la sua tecnica: era l’inizio del 2017. Cominciai ad esplorare l’ambiente italiano, e scoprii che da noi, da una parte, la grande maggioranza dei chirurghi sottovalutava o ignorava completamente l’esistenza della diastasi dei retti; mentre dall’altra cominciavano a formarsi comunità di pazienti affette da tale patologia e attive sui social, che divulgavano notizie – a volte anche molto sbagliate – sulla condizione.
Decisi allora di cominciare ad interagire con queste community, raccontando che non era necessario sottoporsi ad interventi di grande invasività per risolvere la diastasi – che, insomma, anche in questo caso meno è più – e che l’uso della rete, che nella REPA è “obbligatorio”, avrebbe ridotto enormemente le recidive. Cominciarono così ad arrivare in studio le prime pazienti.